Sono in disaccordo con l’affermazione dello scrittore britannico di origine giapponese Kazuo Ishiguro, premio Nobel per la letteratura nel 2017.
“Scrivi di quel che sai” è il consiglio più stupido che abbia mai sentito.
Incoraggia le persone a scrivere ottuse autobiografie.
È il contrario dell’accendere l’immaginazione e il potenziale degli scrittori.
Al contrario, dunque, ho iniziato a scrivere questa newsletter con una sola consapevolezza: parlare di quello che conosco, dei film che vedo. Ho deciso di parlare di cinema, soprattutto italiano, perché è materia da me conosciuta. Più di altro, forse pari solo alla musica. Il preambolo può apparire pretestuoso, ma come nelle migliori occasioni, la ragione si disvelerà già al prossimo paragrafo.
Nella giornata di chiusura del festival del cinema barese, il Bifest, ho assistito all’anteprima mondiale del film Il mio posto è qui. Un film sinceramente importante per me. Un lungometraggio a cui ho lavorato, assieme ad altri, con una comune cura. La percezione tra i membri della troupe era di star realizzando un bel film, delicato, sincero. Di ottimo risultato. Questo lo speriamo ancora, perché il risultato, come tutti sappiamo, dipende dalla risposta degli spettatori. Ma le visioni generano esito e ritengo che questo film avrà una buona risposta di pubblico.
Intanto è nelle librerie l’omonimo romanzo da cui è tratto il lungometraggio, scritto da Daniela Porto, co-regista.
È stato proprio sabato, mentre i cittadini baresi cercavano di opporsi (quasi) compatti al commissariamento della città e offrivano il supporto al Sindaco Decaro, che il Teatro Piccinni ospitava l’anteprima del lungometraggio.
Una certa agitazione energica cresceva dentro di me, una impazienza tipica delle attese più febbrili. Non sapevo nulla della resa del film, avevo solo visto qualche frame, sbirciando il lavoro del D.I.T. sul set.
Il D.I.T. è il digital imaging technician, figura che supervisiona il processo di elaborazione delle immagini digitali, fungendo da collegamento tra il direttore della fotografia (nel caso del film di cui parlo è il trentenne Emilio Costa) e il reparto di post-produzione, che si occupa della lavorazione del film dopo la fase di shooting.
Ricordo bene la trama e, ovviamente, sapevo dove e come era stato girato. Sei settimane di lavorazione. Tre in Calabria e tre in Puglia, per una storia ambientata in un piccolo paesino calabrese nell’immediato secondo dopoguerra. Diciamo a metà degli anni quaranta.
Quella di Marta, protagonista del film, è una storia di resistenza e di coraggio.
Un personaggio verosimile col quale si empatizza subito, ma del quale non si riesce a prevedere le scelte. Non sa cosa sia l’emancipazione, eppure naturalmente sente di volersi emancipare dalle quattro mura domestiche; ha voglia di superare la routine avvilente delle donne che la circondano. Si lascia ispirare dalle vite delle Sante. La tradizione e la sicurezza della Chiesa.
La storia di Lorenzo, co-protagonista del film, è una storia di coraggio e di esperienza. L’esperienza è l’ingrediente che manca a Marta, per questo Lorenzo si rivela per lei uno stimolo importante e, giorno dopo giorno, un insegnante prezioso. La parte mancante per crescere ed emanciparsi. Sebbene negli occhi e nella testa di Marta convivano le ritrosie di una donna degli anni quaranta che non conosce il mondo e che non ha avuto la possibilità di spiarlo neanche attraverso un giornale. Solo per sentito dire. Testimonianze de relato. Come le testimonianze delle Sante.
Il posto di Marta sarebbe lì, a casa, in famiglia, nel paesino. In questo panorama l’Aspromonte calabrese si rivela complementare alla narrazione perché è arroccato, isolato, ispido e lontano dal mare.
Il mio posto è qui trovo sia un film dedicato a quanti lasciano la propria terra per emanciparsi. Dai tempi del liceo continua a stagliarsi nella mia mente una domanda tanto ambiziosa quanto semplice: è più coraggioso chi rimane o chi se ne va?
In più di dieci anni non sono riuscito a darmi una risposta, probabilmente perché non c’è e perché ogni storia ha una sua risposta giusta.
L’emancipazione, nonostante possa empiricamente avvenire anche all’interno della stessa casa, ha necessità di compiersi attraverso un distaccamento dalle radici.
E questo è sicuramente un atto doloroso, specie se compiuto da una donna alla fine degli anni quaranta in un paesino della Calabria. L’emancipazione è quindi un atto doloroso, politico e coraggioso. Proprio come questo bel film che resiste. Resiste agli sfarzi e alla patinatura delle pellicole nostrane confezionate per le piattaforme brulicanti di morali immediate. Resiste con un linguaggio schietto e sincero. Resiste perché esce in sala il prossimo 25 aprile. Giornata della resistenza italiana per eccellenza.
Il 4 aprile invece uscirà un altro film, diametralmente opposto a quello di Cristiano e Daniela, firmato Neri Marcorè. Anche questo presentato in anteprima al Bifest e anche questo in costume1. Ambientato negli anni del boom economico, i sessanta. Sempre tratto da un romanzo, stavolta di Roberto Perrone, giornalista scomparso di recente.
Roberto era bravo a raccontarti un gol, uno smash, una bracciata, ma anche a inventarsi intrecci noir o storie d’amore.
Zamora, questo il titolo del film, è un personaggio che attraverso il folber (il football, secondo un neologismo di Gianni Brera) comprende l’importanza di buttarsi e rischiare anche se perdi. Non a caso è un portiere di calcio, soprannominato Zamora come il famoso portiere spagnolo degli anni Trenta. Si rivedono tanti attori cui siamo irrimediabilmente affezionati, come Giovanni Storti - quello di Aldo Giovanni e Giacomo -, Giovanni Esposito e Antonio Catania. Oltre allo stesso Neri Marcorè.
Intanto negli States, Timothée Chalamet gira il suo prossimo film in cui vestirà i panni di…
…esatto! Bob Dylan. A Complete Unknown per la regia di James Mangold.
Quindi Calabria. Liquirizia. Per alzare la pressione arteriosa.
Dopo la visione de “Il mio posto è qui” ho immaginato come sarebbe stata una colonna sonora firmata Aiello, cantautore struggente e pop, cosentino. Mi sono affezionato a questa canzone che vi lascio.
Ci sentiamo la settimana prossima.
Si definiscono “in costume” i film che ricostruiscono un’epoca passata.
Certo, ci vuole coraggio pure a rimanere e vivere dignitosamente (cioè, brevemente,senza rubare!)
Vaiiii Mereghetti de noartri del sud