Chissà quante coppie si sono innamorate cercando un amore simile a quello di Tancredi e Angelica. Sperando in una bellezza oggettiva (in un mondo relativo), iconica e irraggiungibile come quella di Alain Delon e Claudia Cardinale. Se la perfezione è esistita doveva perfettamente aderire con la coppia scoperta da Luchino Visconti. E se c’era un modo per scoprirla questa perfezione, non vi era altra lente in grado di metterla a fuoco all’infuori di quella cinematografica, la sala buia, l’attesa e la luce del proiettore a comporre le immagini.
Il passato è indicativo dei tempi che furono e non sono più. Per fortuna o per dispiacere, ma tant’è. Ormai abbiamo imparato che la perfezione è relativa e la vita non è perfetta. Ce lo hanno insegnato anche gli anni passati a sperare. Sperare che la vita fosse un film (sbagliando ovviamente), e a sperare che film significasse verità. Era un’altra epoca e c’era un’altra idea di perfezione.
Gli uomini allora, per piacere e piacersi, dovevano immaginarsi somiglianti a Tancredi, a Rocco, a Zorro, col baffetto così ben definito, all’ingiù, proprio come lo disegnerebbe un bambino. Fumare perché la sigaretta donava quell’aria un po’ così, maledetta. Le donne, invece, sognavano di possedere una fierezza, un portamento, un'eleganza simile a quella di Claudia Cardinale. Imitavano quelle vite patinate, date per vere, con il candore e l’innocenza dei più piccoli.
C’è stato un momento in cui il cinema era sogno, era un incanto da mandare a memoria per cercare di identificarsi nei suoi più affascinanti protagonisti. Allora il cinema era anche politico: assolveva a una funzione politica. Educava sognando, tant’è che la politica si permetteva di scegliere a quali registi affidare un film o a chi far scrivere una sceneggiatura. La politica aveva quindi la possibilità di inserirsi nei sogni degli individui, e quindi non si poteva sbagliare l’artefice di quei sogni. Giuseppe Tommasi di Lampedusa (nell’esempio del Gattopardo) era uno per lo più ignorato, goffo e tutt’altro che uno scrittore degno di nota (almeno come descritto dal romanzo di Francesco Piccolo) fin quando la politica non lesse il suo manoscritto e si accorse che il Gattopardo affrontava un tema politico in grado di educare i nuovi elettori.
Così, accanto a Luchino Visconti, il più intellettuale tra i registi degli anni ‘60, cosceneggiarono il film Suso Cecchi d’Amico e Pasquale Festa Campanile. Luchino Visconti veniva, fra gli altri, da Le Notti Bianche (con Marcello Mastroianni dal romanzo di Dostojevski) e Rocco e i suoi fratelli (proprio con Alain Delon). Il Gattopardo raccontava il cambiamento del status politico: l’avvento dell’Unità d’Italia metteva a rischio il dominio del Principe di Salina, simbolo di una nobiltà quasi svuotata di potere. Garibaldi era sbarcato in Sicilia e da lì iniziava la sua avventura in camicia rossa.
Godibile il romanzo (seppure raccoglie ancora qualche dissenso) e brillante la messa in scena cinematografica, Burt Lancaster (gigantesco attore americano per l’epoca), Claudia Cardinale e, appunto, Alain Delon. Era il 1963. Film da mandare a memoria, facce da conoscere meglio dei propri mariti o delle proprie mogli. Sorprendersi a fantasticare sulla somiglianza della propria metà a quell’icona del cinema nostrano. La fantasia era generata dall’incantesimo messo in moto con un’opera cinematografica, nonostante fosse lunga, lenta, produttivamente immensa e culturalmente difficile.
Il Gattopardo è uno degli archetipi di questo cinema, resiste nonostante il tempo, gli anni che inesorabilmente passano e lo invecchiano, gli spettatori cangianti e lunatici, la politica che si spoglia delle responsabilità sociali.
Su tutti sopravvive il ricordo di un ragazzo: faccia angelica e sopracciglio in sù, simbolo dell’arroganza, della spacconeria, archetipo del bello e dannato. In effetti pare fosse bulletto davvero. Non riusciva a trovare il suo posto nel mondo. Scuola e poi Marina militare, cacciato perché troppo casinista. Il cinema, da sogno qual’è, sapeva guardare dove la vita non riesce ancora ad arrivare. Così qualcuno gli suggerì di provare a fare l’attore. A Roma perché forse a Parigi rischiava di fare la fine di un po’ di personaggi poi interpretati. Ironia di un sogno. Forse Monsieur Delon non lo sognava il cinema. Nessuna scuola attoriale. Osservare e vivere era il suo metodo. Un’osservazione glaciale, dai suoi occhi azzurri. Occhi ammaliatori e indimenticati prima dai registi e poi dal grande pubblico.
Decine e decine di pellicole da protagonista in Italia e in Francia, opposto all’altro astro del cinema francese, Jean Paul Belmondo.
Domenica la signora morte (come la chiama Giovanni Veronesi) ci ha invogliato a ricordare un po’ di più, ma il cinema, quando tocca queste vette di popolarità riuscendo a sostituirsi financo alla vita, resta immortale. Come gli dei greci. Belli e immortali. Come Alain Delon.
sottoscrivo una per una le parole che hai scritto. Davvero un film SONTUOSO! irripetibile. gli attori, le musiche, i vestiti. le atmosfere che si respirano... IA sarà capace di tanto? o stiamo rinunciando a tanta bellezza?
Again? Lettura dello scorso gerragosto